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A.A.A. - Aviatori d’Italia presenta la storia di un pilota tra Regia e Aeronautica Militare

Immagine del redattore: assoaeroarmaassoaeroarma

a cura del Team Comunicazione della Presidenza Nazionale A.A.A. - Aviatori d’Italia


Il Presidente Nazionale dell’Associazione Arma Aeronautica - Aviatori d’Italia, Generale di Squadra Aerea (c) Giulio Mainini, ci ha recentemente segnalato l’articolo “Cant. Z. 501 Gabbiano. Il protagonista della mia rocambolesca fuga dall’isola di Leros (Egeo)” 9 ottobre 1943 - 24 maggio 1944 di Vincenzo Nostro, pubblicato sul numero 3/4 2024 del periodico “Aeronautica”, inviandoci anche un filmato che attraverso splendide immagini ripercorre tutta la storia che vi proponiamo di seguito.


La documentazione è stata fornita dal Primo Maresciallo in congedo Claudio Nostro, del Nucleo A.A.A. - Aviatori d’Italia di San Donà di Piave, figlio del Maresciallo Pilota Vincenzo Nostro, medaglia di Bronzo al Valor Militare e medaglia d’Oro di Lunga Navigazione Aerea.



 

Cant. Z. 501 Gabbiano

Il protagonista della mia rocambolesca fuga dall’isola di Leros (Egeo)

(9 ottobre 1943 – 24 maggio 1944)

di Vincenzo Nostro


I Cant Z.501 della 185ª Squadriglia schierati in Egeo prima della guerra
I Cant Z.501 della 185ª Squadriglia schierati in Egeo prima della guerra

Il racconto che segue è tratto da “Il mio piccolo diario di guerra” (scritto dal Maresciallo Pilota Vincenzo Nostro, medaglia di Bronzo al V.M. e medaglia d’Oro di Lunga Navigazione Aerea, nato il 16 aprile 1909 e deceduto l’11 ottobre 2003), diario che il figlio Claudio, 1° maresciallo in congedo del Nucleo A.A.A. di San Donà di Piave, ha ritrovato dopo la scomparsa del padre ed ha amorevolmente curato per farne una pubblicazione per i propri congiunti e per gli amici della famiglia.

Il maresciallo Nostro, protagonista e autore dell’episodio
Il maresciallo Nostro, protagonista e autore dell’episodio

Lero (Egeo), 147ª Squadriglia R.M.L., 9 ottobre 1943

Siamo in plenilunio, di tanto in tanto mi affaccio all’imboccatura del rifugio antiaereo che oramai è diventato il nostro alloggio abituale da vari giorni; odo soltanto il chiacchierio delle cicale. Al chiarore della Luna scorgo in lontananza le cinque sagome dei nostri idrovolanti, superstiti dai bombardamenti tedeschi, ormeggiati ai gavitelli che si dondolano pigramente sulle calme acque della baia. Dall’8 settembre, privi di qualsiasi collegamento con Rodi e in attesa di ordini che non arrivano, viviamo praticamente nei rifugi, a disposizione dell’Amm. Mascherpa.


Da qualche giorno è maturata l’idea di tentare di raggiungere una base britannica in aderenza al comunicato dell’Amm. Wilson, diramato dopo l’armistizio, e da me interpretato come un ordine concordato fra il governo italiano e gli alleati anglo-americani. Come da accordi con il Ten. di Vascello osservatore Bruni ed il 1° aviere motorista Radi, appuntamento per stanotte alle due dopo mezzanotte; ci troveremo riuniti allo scivolo della 147ª Squadriglia dove è stato nascosto il battellino di gomma usato la notte precedente per scegliere il “501” più idoneo alla nostra fuga. Noi transfughi sappiamo di compiere un gravissimo reato di insubordinazione che può costarci incalcolabili conseguenze morali e materiali ma, a questo punto, è necessario fare qualcosa per la salvezza della pellaccia… se salvezza ci sarà.


Tutti dormono e tutto è silenzio intorno a me; mancano quindici minuti alle due, esco dal rifugio cercando di fare il minimo rumore possibile; anche Girotto poco dopo sbuca da un’altra uscita. Ci dirigiamo allo scivolo ove sono già Bruni e Radi ad attenderci seduti sul battellino. Salpiamo e come la notte precedente voghiamo in zona d’ombra tangenzialmente al solco luminoso della Luna sull’acqua. Accostiamo al nostro “501” che disormeggiamo dal gavitello e saliamo a bordo. Radi sale in gondola per una nuova verifica al motore, io controllo tutti i comandi lungo il loro percorso fino ai piani di coda; mi accompagna Bruni che mi fa luce con la sua lampada a pile mentre Girotto agisce sul volantino e sulla pedaliera per segnalarmi lo scorrimento regolare dei cavi di collegamento ai piani alari e di coda. Tutto mi sembra OK, si può partire. Mentre prendo posto ai comandi, Girotto è già al suo posto di secondo pilota, poi comando a Radi di tenersi pronto per la messa in moto, Bruni si colloca in piedi alle spalle del mio seggiolino. Al mio segnale Radi dà mano all’avviamento; il primo scoppiettio di motore mi fa sobbalzare, in quel silenzio, mi sembra lo starnuto di un gigante apocalittico e improvvisamente temo che tutta la baia e Lero stessa ne siano destate dallo improvviso scoppio ma oramai… il dado è tratto. «Coraggio! - grido a Radi - Accelera». L’elica si avvia davanti a me in giri sempre più vorticosi, è andata! Afferro il volante e le manette del gas, faccio un mezzo giro di flottaggio per orientarmi verso l’imboccatura della baia e non penso neppure a riscaldare un poco il motore, ho il vento in prua in giusta posizione e do tutto gas. Attraverso il pulviscolo iridato dei baffi di acqua che si sollevano a prua, mi par di intravedere un certo movimento sul fortilizio armato esistente all’imboccatura della baia; sono i nostri marinai posti a difesa dell’ingresso della baia stessa che certamente sorpresi a quell’ora della notte dall’improvviso rumore di un motore d’aereo in moto, in allarmi sono accorsi alle postazioni antiaeree. Vedo accendersi qualche luce… ma che luce? Altro che luci! Sono proiettili traccianti sparati su di noi con alzo a zero che il rombo del motore non mi aveva fatto avvertire; sono tante scie luminose che stanno davanti a noi come una barriera di fuoco alla nostra avanzata. Accuso una strizza al cuore ma oramai il motore è lanciato e il “501” scivola veloce sul redan; non posso fermare per tornare indietro, o la và o la spacca! Strappo letteralmente dall’acqua il mio fido “Mammajut”, come tutti chiamano il “501” in questa guerra e cabro, cabro, cabro impennando la prua quasi volessi arrampicarmi su quel cielo illuminato da bagliori di fuoco per scavalcare quella cortina fosforescente.

I Cant Z.501 continuarono a volare con la Regia Aeronautica al Sud fino alla fine della Seconda guerra mondiale, al fianco dei più prestanti Z.506
I Cant Z.501 continuarono a volare con la Regia Aeronautica al Sud fino alla fine della Seconda guerra mondiale, al fianco dei più prestanti Z.506

È fatta, sono già lontano e in alto ed arranco a tutta birra; io sono in un bagno di sudore; sono stati momenti di autentica fifa. È una navigazione tranquilla a quota 500 metri quando dalla gondola scende Radi per informarmi che contrariamente a quanto credeva abbiamo carburante sufficiente per meno di tre ore soltanto. Lo riferisco a Bruni che consulta la carta di navigazione e calcola che non possiamo farcela a raggiungere d’un sol balzo Alessandria d’Egitto con quella limitata autonomia; mi indica l’isola di Cipro ove potremmo ammarare e poi si vedrà il da farsi, gli do il mio OK e continuiamo il volo con rotta modificata SSE.


Limassol

Vediamo profilarsi lontana una lunga linea grigia, Bruni col capo mi fa cenno che è Cipro, sorvolo Limassol eseguendo due larghi giri ben in vista da terra, una manica a vento sul tetto di un edificio prossimo alla baia me ne indica la direzione. Non c’è alcuna reazione da terra e non vedo alcuna segnalazione.

Il maresciallo Nostro in volo sul 506
Il maresciallo Nostro in volo sul 506

Vengo all’ammaraggio che eseguo facendo la barba all’acqua e col motore in moto e al minimo, flotto in giri concentrici alla distanza di un cento metri dalla riva. L’orologio mi indica le 07,45 e dalla riva non scorgo alcun movimento particolare, ma, ecco, mi segnalano di avvicinarmi con una specie di bandiera colorata, così flottando piano piano, mi accosto ad una lunga e bassa banchina in legno su palafitte e chiudo il contatto per arrestare il motore. Col “mezzo marinaio”, Bruni aiuta un soldato inglese che gli allunga una cima d’attracco per l’ormeggio. Appena messi i piedi sulla banchina un ufficiale ci rivolge la parola in inglese e chiede di parlare col pilota capo equipaggio; Bruni che ha capito indica me. Vengo introdotto in un ufficio del porto dove un ufficiale superiore inglese, con l’aiuto dell’interprete, mi chiede il perché e le ragioni del mio ammaraggio a Limassol. Racconto in breve e alla meglio lo scopo del volo e le ragioni del mio ammaraggio. La seduta è breve, l’interprete mi traduce che io e il mio equipaggio “siamo graditi ospiti di Sua Maestà Britannica” e che ci accorderanno il rifornimento di carburante necessario; domattina potremo ripartire per raggiungere la loro base idrovolanti di Abukir nei pressi di Alessandria d’Egitto, ci salutiamo ed io esco. Il giorno dopo salutiamo e ringraziamo il gentile capitano inglese che ci ha istruiti e, accompagnati da lui, ci avviamo verso il “501”, il vero protagonista di questa storia. Il motore è già avviato: come è musicale il suo ritmico rombo! Non debbo fare alcuna manovra, mi basta puntare la prua verso il mare aperto, mi allontano flottando per qualche metro per riscaldare un poco il motore poi do gas: si parte con rotta 185°. Siamo in volo, faccio un giro di saluto sul porto per prendere quota di mille metri come mi è stato consigliato dal capitano inglese; per ora seguo il suo suggerimento; durante la navigazione si vedrà.

Per la Regia Aeronautica il Cant Z.501 fu il principale idrovolante da ricognizione marittima nella prima fase della Seconda guerra mondiale
Per la Regia Aeronautica il Cant Z.501 fu il principale idrovolante da ricognizione marittima nella prima fase della Seconda guerra mondiale
Esemplare della 141ª Squadriglia
Esemplare della 141ª Squadriglia

Due caccia inglesi Spitfire che ci seguivano dalla partenza, si sono abbassati alla nostra quota ed uno dei piloti col braccio disteso sotto il tettuccio sembra voglia indicare il punto di arrivo; tante grazie, siamo in rotta perfetta e presto o tardi dovremo pure avvistare quella famosa località di Abukir. Avvisto una grossa manica a vento che indica vento da Est e pertanto senza difficoltà potrò ammarare parallelamente alla baia stessa, non vedo né alture né ostacoli che possano rendermi difficile la manovra. Eseguo due giri a quota 100 metri sull’idroscalo ove difatti sono all’ancora due Sunderland e quindi vado all’ammaraggio che eseguo alla “vasellina” mantenendomi poi ad una cinquantina di metri dalla riva col motore al minimo perché vedo venirci incontro un motoscafo per, rimorchiarci. Tolgo i contatti, siamo fermi. Un aviere della RAF sul motoscafo ci aggancia con un “mezzo marinaio” e fissa un cavetto di rimorchio al gancio di prua del “501”; veniamo rimorchiati a riva ad una banchina di legno ove veniamo ormeggiati. Il nostro fidatissimo Cant.Z. 501 ha compiuto il suo dovere con umiltà portando a termine la sua fatica: grazie caro “Mammajut”, ci hai portato in salvo. Sono le 12,30 dell’11 ottobre 1943.


Abukir

Subito dopo il nostro arrivo veniamo interrogati dal Comandante di quell’idroscalo che ovviamente intende conoscere i motivi del nostro viaggio. Abbiamo l’impressione che il nostro racconto venga ritenuto vero e sincero e difatti veniamo ospitati con molta gentilezza, ma rimaniamo in attesa di ulteriori interrogatori. Dopo poco più di una settimana di vita libera ed inattiva, una mattina vengo chiamato nell’ufficio del comandante dalla base, un colonnello della RAF. Chiedo: perché soltanto io? Mi viene risposto che il colonnello desidera parlare soltanto col primo pilota capo equipaggio. Mi fa da interprete un sottufficiale che parla benissimo l’italiano. Il colonnello parla senza guardarmi in viso, più rivolto all’interprete che a me. «I suoi compagni – dice – sono ospiti come lei ma saranno destinati ad altre basi in attesa di rimpatrio; il maresciallo suo collega che come lei sa non gode buona salute, sarà curato in uno dei nostri ospedali mentre il suo ufficiale osservatore sarà rimpatriato col primo mezzo disponibile. A noi interessa lei quale pilota dell’aereo e poiché effettuiamo quotidianamente dei collegamenti con la nostra base sull’isola di Castel Rosso che stiamo sgomberando, le chiediamo se sarebbe disposto a collaborare con noi alternandosi col suo idrovolante e coi nostri due Sunderland impiegati per queste missioni. Si tratta di missioni di guerra vere e proprie, ma lei verrebbe tutelato a tutti gli effetti alla pari dei nostri piloti per quanto riguarda il trattamento economico e se crede potrebbe anche rivestire il grado inglese della RAF corrispondente al suo». Tale discorsetto mi sorprende e mi lascia perplesso; replico che sono venuto volontariamente a Abukir non certo per collaborare con la RAF ma soltanto in conseguenza del noto comunicato dell’Amm. Wilson. Tuttavia, prego il mio interlocutore di farmi riflettere sull’argomento e gli chiedo due giorni di tempo per decidere, tempo che mi accorda. Uscendo molto sorpreso e frastornato da quel colloquio, incontro Bruni il quale mi dice che Girotto mi salutava e che poche ore prima era stato trasportato con breve avviso ad un ospedale di Alessandria. In quanto a lui non conosce la sua posizione, ma è felice di apprendere da me quanto mi aveva riferito sul suo conto il comandante della base. Per quel che mi riguarda gli riferisco la proposta ricevuta, al che Bruni mi invita ad essere prudente nella decisione da prendere; mi dice di non poter darmi alcun altro consiglio e che devo decidere solo di mia propria volontà. ’indomani mattina chiedo di parlare al comandante della base e vengo ricevuto da quel segaligno ufficiale con un mezzo sorrisetto ambiguo: «Allora, ha deciso che cosa intende fare?» mi chiede. «Sono spiacente, comandante, ma non posso accettare la sua proposta, il mio solo desiderio è quello di rimpatriare al più presto per mettermi a disposizione dei comandi dell’Aeronautica italiana e niente di più». «Bene! Se questa è la sua decisione vorrà dire che lei resterà nostro gradito ospite in attesa che vengano svolte le pratiche per il suo rimpatrio. D’altra parte lei non potrà più restare qui nella nostra base ma dovrà, purtroppo, essere trasferito temporaneamente in un campo di prigionieri italiani in attesa che venga definita la sua particolare situazione e quella del suo velivolo». Così cominciava la mia… pseudo prigionia al campo “308” in attesa degli eventi.

Il maresciallo Nostro in uniforme ordinaria
Il maresciallo Nostro in uniforme ordinaria

Il ritorno in Patria

La mia pseudo prigionia nei campi POW di Abukir e successivamente in Palestina a El Burrej durò circa sei lunghi mesi. Una mattina dei primi giorni del maggio 1944, vengo chiamato dal capo campo nel suo ufficio e un tenente della RAF mi dice che ha ricevuto l’ordine di farmi tornare ad Abukir dove mi devo presentare al comando di quell’idroscalo. Intuisco con profonda gioia che deve trattarsi del mio rimpatrio. Il giorno seguente, ad Abukir, mi rivedo dopo circa sei mesi con il 1° Aviere motorista Radi con il quale mi abbraccio, entrambi molto commossi. Il colonnello, ci informa che ha ricevuto l’ordine di farci rimpatriare col nostro idrovolante con destinazione l’idroscalo di Siracusa. Non sto a dire la mia esultanza e quella di Radi, i cento pensieri che inondano improvvisamente la mente, la gioia incontenibile che vorremmo gridare ai quattro venti; ci sembra non possa essere vera una conclusione di quel genere: rimpatriare con lo stesso nostro apparecchio dopo quasi sei mesi in una sorta di prigionia fra campi spinati ed ora, invece, avere la possibilità di pilotare un aereo tutto nostro verso l’Italia, verso la libertà. Lavoriamo tutto il giorno sul “501”, di gran lena, senza soste e senza sentire la fatica di quei sali e scendi dal motore allo scafo; non andiamo neppure alla mensa per il pasto del mezzogiorno. L’indomani il nostro “501” viene riportato allo scivolo ove, per mezzo di una gru è adagiato in acqua ed ormeggiato ad un vicino gavitello. Joseff, l’interprete, ci accompagna poi all’ufficio del comando per salutare e ringraziare il colonnello comandante il quale, stringendoci le mani, ci augura buon viaggio restituendomi la pistola d’ordinanza che mi era stata sequestrata al mio primo arrivo ad Abukir e consegnandomi una carta di navigazione dove era già stata tracciata con matita rossa la rotta Abukir – Siracusa.

Poco dopo ci imbarchiamo fra la curiosità di parte del personale della base che ci saluta dallo scivolo. Distaccati gli ormeggi, Radi mette in moto e quindi scende in cabina sedendosi accanto a me al posto del 2° pilota. Sono le 09.30 del 24 maggio 1944. Ci accingiamo a compiere un lungo volo in un solo balzo dall’Africa alla Sicilia, qualcosa come 1.500 chilometri e cioè quasi nove ore di volo alla media di 180 km/ora. Decolliamo, e dopo aver eseguito due larghi giri sull’idroscalo di Abukir in segno di saluto e per prender quota, mi metto in rotta per 290° verso l’aperto Mediterraneo che sembra ci dica: «avanti, avanti a tutta forza, coraggio!».


Il “Mammajut” vola da solo senza la minima perturbazione atmosferica, lascio in bando la leva dei comandi che di tanto in tanto affido a Radi tanto per mantenere il “501” in linea di volo. Non sentiamo stanchezza durante quella galoppata: la gioia di poter rivedere fra poche ore la costa della Sicilia e, più tardi, poter riascoltare la nostra lingua e i nostri dialetti, ci rende euforici. Verso le 17,30 cominciamo ad avvistare la costa sicula. Inizio a planare lentamente mano, mano che mi avvicino all’isola, e mi stabilizzo sui 500 metri di quota. Ma ecco Siracusa, la nostra meta, il nostro traguardo di arrivo; sulla terrazza dell’edificio principale del vecchio idroscalo c’è una manica a vento afflosciata che mi indica l’assenza assoluta di vento e, pertanto, che posso ammarare nelle migliori condizioni di tempo e di luogo. Faccio due o tre giri sull’idroscalo a bassissima quota per richiamare l’attenzione del personale e finalmente ammaro provenendo dal mare aperto verso l’idroscalo che raggiungo sul redan flottando a velocità sostenuta. Tolgo i contatti e per l’abbrivio il “501” accosta dolcemente alla banchina di cemento sormontata da una capace gru, banchina dalla quale alcuni avieri di manovra ci lanciano una cima di ormeggio. La nostra avventura è finita; bacio il suolo italiano, la mia terra, mentre rivolgo un silenzioso ringraziamento a Dio.

 

Scarica qui il PDF dell’articolo pubblicato sul

 

Ringraziamo il Presidente Nazionale dell’Associazione Arma Aeronautica - Aviatori d’Italia, Generale di Squadra Aerea (c) Giulio Mainini, e il Primo Maresciallo in congedo Claudio Nostro, del Nucleo A.A.A. - Aviatori d’Italia di San Donà di Piave



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